A partire dal 20° secolo sono state sviluppate una grande quantità di bevande a base di frutta, che in maniera molto generica e colloquiale sono definite “succhi di frutta”, anche se come appare evidente anche dalle etichette di questi prodotti, non sono tutti uguali.
La percezione “salutare” che mantiene il succo di frutta è dovuta proprio alla componente principale che “dovrebbe” essere una o più tipologie di frutta ma che in molti casi è contenuto solo in parte.
La regolamentazione alimentare italiana indica che un succo di frutta è tale quando contiene un prodotto finale che proviene interamente dal prodotto della spremitura del frutto, senza l’aggiunta di conservanti, dolcificanti o aromi, ma non tutti i frutti sono effettivamente adatti a questa forma di preparazione, ad esempio molti agrumi.
Ma come capire quando un succo di frutta “fa male”?
Sostanzialmente basta fare attenzione alla dicitura, in quanto il “vero” succo deve contenere, come accennato il 100 % di frutta e che contengono gli zuccheri naturali della stessa, che generalmente sono rappresentati dal fruttosio.
I nettari ad esempio per legge devono contenere un apporto minimo di frutta, che è quasi sempre superiore al 50 % (il limite è minore solo per i frutti tropicali e l’albicocca), ed in tutti i casi i succhi di frutta non possono contenere un apporto superiore ai 100 gr per litro.
Quelli da evitare o comunque da limitare nell’utilizzo risultano essere le bevande al succo di frutta che molto spesso contengono coloranti che non sono propriamente dannosi ma che danno solo l’idea di essere effettivamente riconducibili a qualche tipologia di frutta: per legge le bevande devono contenere un apporti piuttosto risibile di frutta (generalmente il 12-15%) ma in molti casi le etichette ingannano il compratore con diciture del tipo “di origine naturale” che può indicare generalmente qualsiasi aroma inserito successivamente.
Meglio puntare sui concentrati di frutta, che contengono per l’appunto nient’altro che il prodotto “puro”.
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